28.05.2516
Ospedale,
Stanza
Poco prima
dell’Alba
Da
ricordare: “Well, well, well.”
[ Qualche ora prima ]
Sullo schermo dell’holodeck è chiaro il suo viso, con la
sigaretta tra le labbra e l’espressione di uno che sa ciò che vuole. L'uomo dei sogni di ogni donna del ‘Verse. Quello che, nonostante tutto,
ancora si preoccupa. Lei gli sorride, gli racconta e lo ascolta. Si finge anche
una “moglie” contrariata dall'assenza, pronta a preparargli la valigia da lasciare fuori
dalla porta. E’ la promessa di una fuga su Greenfield a farle spuntare un
sorriso fin troppo solare.
Devo andare ora..
Vado a prepararmi anche io, stasera ho la missione di
"adescamento" per il killer. Augurami buona fortuna. [una realtà che
cade come un macigno ma che lei spiega come se si trattasse di fare due passi
al parco. Poi avvicina le dita alle labbra, mandando un bacio nell'aria.]
Chiama quando hai finito.. Fai attenzione.. [ Ricambia
quel bacio poco dopo portando indice e medio contro le labbra per poi sfiorare
lo schermo del c.pad. Chiude, poco dopo, la conversazione anche se lei potrà
sentire, di sottofondo, un imprecazione. Che sia per la preoccupazione per
quanto dovrà fare quella sera è ovvio.]
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Le pareti
hanno una curiosa tinta salmonata, via via sempre più scura. Sempre più rossa.
Le tende si gonfiano e frusciano, sotto la carezza dell’aria che le attraversa
lasciandone schioccare l’estremità in un placido silenzio. Il respiro regolare
testimonia l’assoluta calma del corpo disteso tra lenzuola, rannicchiato da un
lato con i capelli sparsi attorno come una coroncina. Non ci sono sogni in un sonno indotto
come il suo. Non ci sono ricordi ai quali aggrapparsi ma la sensazione, per un
attimo, di soffocamento. In un attimo, di pura prepotenza, Emma annaspa in cerca
di respiro e spalanca gli occhi, tossendo contro il cuscino. Alza di scatto una
spalla, prendendo le distanze con il materasso. Gli occhi si aprono su una
mobilia chiara, immacolata. Asettica.
Un ospedale,
di nuovo.
Ah, che
palle.
Si tocca la
fronte confusa, stropicciando palpebre e ciglia con le dita. Siede sul letto
poco dopo, con estrema lentezza, scostando da un lato le coperte per sporgere
le gambe oltre il bordo. Fissa le braccia alla ricerca di segni, strofinando la
pelle con i polpastrelli come se potesse togliersi di dosso la sensazioni di
mani estranee a chiuderla in una morsa tenace, spaventosa. Sa, tuttavia, che i
segni non sono li. Ce ne sono di diversi tipi: quelli del corpo e quelli dell’anima.
Sul corpo ha una traccia, nemmeno tanto sottile, che attraversa il collo
sfumandosi di violaceo. Un bel livido, grandioso. Lo vede sullo specchio,
quando tasta le clavicole risalendo verso il mento pian piano. Manifesta tutto
il fastidio che può, nella sua valutazione critica, e tende in alto il viso per
valutarne l’estensione. Che orrore. Sull’anima, invece, resta il sudicio di
quella voce che s’è insinuata prima del buio. “Well, well, well.” La colonna
sonora della sua scomparsa, probabilmente, se non si fosse messa a lottare come una disperata. Con ogni probabilità è quella che
ancora la fa rabbrividire al solo pensiero, assieme a quel senso di impotenza
per essersi sentita così vulnerabile ed insicura – oltre che immancabilmente
sfigata. Se non fosse stato per i barattoli sarebbe… boh, chissà. Altrove.
Tocca terra
timidamente, premendo i piedi sul pavimento gelato. Si alza barcollando un po’, accorgendosi di aver gli stessi vestiti bianco candido
della visita precedente. Per un momento l’attraversa il pensiero di bruciarli,
dimenticandosene. Invece si incammina verso un ripiano schiacciato contro al
muro, dove tutti i suoi effetti personali – i pochi che aveva durante la
missione – sono stati raggruppati. Il Torque, che tocca quasi distrattamente
recuperando poi le estremità della catenina per indossarlo (come se si
trattasse di uno scudo invisibile che la sera prima l’ha protetta, evitando il
fallimento). Si rende conto di non avere altro. Niente bracciale – e pur
toccando il polso non trova altro che vuoto – e niente orecchini. Solo la
pochette, con all’interno il pad. Ne riaccende lo schermo toccando qualche tasto,
controllando chiamate perse o messaggi non letti. Lei dovrebbe farla una
chiamata. Anzi, due. La prima se la risparmia, sostituendola con un messaggio –
non è nemmeno sicura di riuscire a parlare senza la voce arrochita di un
fumatore incallito.
Poche parole
per rassicurare il destinatario. Poche parole per riassumere l’orrore che ha
dovuto vivere – soprattutto se ripensa all’immensità delle emozioni che l’hanno
investita.
Poi anche la seconda chiamata diventa un messaggio, a scorrere sulla rubrica per cercare il nome adatto a cui
chiedere il “favore”.
Non
impensabile ma sicuramente uno tra i più affidabili, sotto tanti punti di vista.
“Sono all’Ospedale, mi vieni a prendere? Devo uscire di qui,
assolutamente.”
L’unica
incognita sarà la risposta, che attenderà seduta contro il mobile a riflettere
su una cosa ancora: il proprio salvatore.
Li ricorda
bene quei due occhi nero pece che, per un attimo, hanno bucato il buio divenendo
scintille di fuoco. Solo per lei. Esclusivamente per lei. Si è aggrappata alla
sensazione rassicurante che promettevano.
Poi tutto s’è
fatto nero, profondo e silenzioso.
Nel delirio
dell’incoscienza l’unica cosa alla quale ha saputo pensare è stata: neri, non
azzurri. Non erano occhi azzurri.