mercoledì 28 maggio 2014

28.05.2516
Ospedale, Stanza
Poco prima dell’Alba


Da ricordare: “Well, well, well.”


[ Qualche ora prima ]

Sullo schermo dell’holodeck è chiaro il suo viso, con la sigaretta tra le labbra e l’espressione di uno che sa ciò che vuole. L'uomo dei sogni di ogni donna del ‘Verse. Quello che, nonostante tutto, ancora si preoccupa. Lei gli sorride, gli racconta e lo ascolta. Si finge anche una “moglie” contrariata dall'assenza, pronta a preparargli la valigia da lasciare fuori dalla porta. E’ la promessa di una fuga su Greenfield a farle spuntare un sorriso fin troppo solare.

Devo andare ora..
Vado a prepararmi anche io, stasera ho la missione di "adescamento" per il killer. Augurami buona fortuna. [una realtà che cade come un macigno ma che lei spiega come se si trattasse di fare due passi al parco. Poi avvicina le dita alle labbra, mandando un bacio nell'aria.] 
Chiama quando hai finito..  Fai attenzione.. [ Ricambia quel bacio poco dopo portando indice e medio contro le labbra per poi sfiorare lo schermo del c.pad. Chiude, poco dopo, la conversazione anche se lei potrà sentire, di sottofondo, un imprecazione. Che sia per la preoccupazione per quanto dovrà fare quella sera è ovvio.]


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Le pareti hanno una curiosa tinta salmonata, via via sempre più scura. Sempre più rossa. Le tende si gonfiano e frusciano, sotto la carezza dell’aria che le attraversa lasciandone schioccare l’estremità in un placido silenzio. Il respiro regolare testimonia l’assoluta calma del corpo disteso tra lenzuola, rannicchiato da un lato con i capelli sparsi attorno come una coroncina. Non ci sono sogni in un sonno indotto come il suo. Non ci sono ricordi ai quali aggrapparsi ma la sensazione, per un attimo, di soffocamento. In un attimo, di pura prepotenza, Emma annaspa in cerca di respiro e spalanca gli occhi, tossendo contro il cuscino. Alza di scatto una spalla, prendendo le distanze con il materasso. Gli occhi si aprono su una mobilia chiara, immacolata. Asettica.
Un ospedale, di nuovo.
Ah, che palle.
Si tocca la fronte confusa, stropicciando palpebre e ciglia con le dita. Siede sul letto poco dopo, con estrema lentezza, scostando da un lato le coperte per sporgere le gambe oltre il bordo. Fissa le braccia alla ricerca di segni, strofinando la pelle con i polpastrelli come se potesse togliersi di dosso la sensazioni di mani estranee a chiuderla in una morsa tenace, spaventosa. Sa, tuttavia, che i segni non sono li. Ce ne sono di diversi tipi: quelli del corpo e quelli dell’anima. Sul corpo ha una traccia, nemmeno tanto sottile, che attraversa il collo sfumandosi di violaceo. Un bel livido, grandioso. Lo vede sullo specchio, quando tasta le clavicole risalendo verso il mento pian piano. Manifesta tutto il fastidio che può, nella sua valutazione critica, e tende in alto il viso per valutarne l’estensione. Che orrore. Sull’anima, invece, resta il sudicio di quella voce che s’è insinuata prima del buio. “Well, well, well.” La colonna sonora della sua scomparsa, probabilmente, se non si fosse messa a lottare come una disperata. Con ogni probabilità è quella che ancora la fa rabbrividire al solo pensiero, assieme a quel senso di impotenza per essersi sentita così vulnerabile ed insicura – oltre che immancabilmente sfigata. Se non fosse stato per i barattoli sarebbe… boh, chissà. Altrove.

Tocca terra timidamente, premendo i piedi sul pavimento gelato. Si alza barcollando un po’, accorgendosi di aver gli stessi vestiti bianco candido della visita precedente. Per un momento l’attraversa il pensiero di bruciarli, dimenticandosene. Invece si incammina verso un ripiano schiacciato contro al muro, dove tutti i suoi effetti personali – i pochi che aveva durante la missione – sono stati raggruppati. Il Torque, che tocca quasi distrattamente recuperando poi le estremità della catenina per indossarlo (come se si trattasse di uno scudo invisibile che la sera prima l’ha protetta, evitando il fallimento). Si rende conto di non avere altro. Niente bracciale – e pur toccando il polso non trova altro che vuoto – e niente orecchini. Solo la pochette, con all’interno il pad. Ne riaccende lo schermo toccando qualche tasto, controllando chiamate perse o messaggi non letti. Lei dovrebbe farla una chiamata. Anzi, due. La prima se la risparmia, sostituendola con un messaggio – non è nemmeno sicura di riuscire a parlare senza la voce arrochita di un fumatore incallito.
Poche parole per rassicurare il destinatario. Poche parole per riassumere l’orrore che ha dovuto vivere – soprattutto se ripensa all’immensità delle emozioni che l’hanno investita.
Poi anche la seconda chiamata diventa un messaggio, a scorrere sulla rubrica per cercare il nome adatto a cui chiedere il “favore”.
Non impensabile ma sicuramente uno tra i più affidabili, sotto tanti punti di vista.


“Sono all’Ospedale, mi vieni a prendere? Devo uscire di qui, assolutamente.”


L’unica incognita sarà la risposta, che attenderà seduta contro il mobile a riflettere su una cosa ancora: il proprio salvatore.
Li ricorda bene quei due occhi nero pece che, per un attimo, hanno bucato il buio divenendo scintille di fuoco. Solo per lei. Esclusivamente per lei. Si è aggrappata alla sensazione rassicurante che promettevano.
Poi tutto s’è fatto nero, profondo e silenzioso.
Nel delirio dell’incoscienza l’unica cosa alla quale ha saputo pensare è stata: neri, non azzurri. Non erano occhi azzurri



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